WHO KILLED CATTELAN?           

Emanuela Pezzetta*

Caravaggio / Dalla Venezia

Il David con la testa di Golia che Caravaggio realizzò nei primi decenni del Sedicesimo secolo è una delle più intense e drammatiche interpretazioni del noto episodio biblico. Da uno sfondo plumbeo, atemporale, una luce radente fa affiorare il giovane corpo di David, reggente nella mano sinistra la testa decollata del gigante Golia e impugnante nella mano destra la vittoriosa spada. David, con un moto di lieve abbandono, rivolge uno sguardo intenso e pesante, desolatamente pietoso verso la testa sanguinante di colui che si era macchiato di orrende colpe. È opinione consolidata che si debba identificare nel Golia un autoritratto del Caravaggio, quale rappresentazione di se stesso nella condizione della vittima. Sulla spada, strumento attraverso il quale si compie la vittoria del bene sul male, l’iscrizione «H.AS O S» riprende il motto agostiniano humilitas occidit superbiam ed è proprio attraverso la speculazione di Sant’Agostino che si deve leggere il David con la testa di Golia: Caravaggio, colpevole dell’omicidio di Ranuccio Tomassoni, si autorappresenta nella testa mozzata del Golia peccatore, come se la pena capitale fosse già stata eseguita. Lo sguardo pietoso del suo giustiziere è lo sguardo cristologico della compassione e del perdono, quello che Caravaggio sperava assumesse la Chiesa nei suoi stessi confronti.
       Tale premessa è indispensabile per comprendere il senso del quadro in WHO KILLED CATTELAN?(1), l’operazione che David Dalla Venezia mette in atto in concomitanza con la 52a Biennale di Venezia. L’autore, che ritrae se stesso mentre impugna la testa decollata di Maurizio Cattelan, parte dalla citazione del David con la testa di Golia caravaggesco, ma a differenza di Caravaggio non si autorappresenta nelle vesti del peccatore giustiziato, ma del giustiziere.

Sistemi a confronto

WKC? costruisce attorno al quadro, concepito come elemento a sé stante all’interno dell’operazione, una ramificazione di significati che fanno dell’oggetto pittorico l’espediente, la circostanza temporale sulla quale David Dalla Venezia concretizza le sue riflessioni sulla produzione artistica contemporanea. La struttura innescata (l’evento Biennale rapportato all’evento WKC? a sua volta rapportato al quadro) fa convergere nel luogo pittorico la contrapposizione dialettica tra due divergenti sistemi di produzione artistica: il sistema che si riconosce e che è rappresentato in manifestazioni come la Biennale (Golia/Cattelan) e il sistema che esiste in virtù della sua opposizione a quest’ultimo (David/David Dalla Venezia). WKC? mette in moto un’opposizione al sistema istituzionale della Biennale in cui ad essere contestati sono alcuni dei presupposti della produzione artistica contemporanea, quali l’autenticità, l’originalità assoluta, l’unicità dell’idea e la produzione shockante. Questi aspetti sembrano porsi a David Dalla Venezia più come dei presupposti etici a cui un autore deve conformarsi per essere istituzionalmente riconosciuto come artista, che delle qualità intrinseche dell’opera d’arte. Ad essi contrappone, ad esempio, la pratica dell’emulazione del modello, attraverso la quale non si svilisce l’autorialità dell’antecedente antico, ma se ne continua il discorso artistico in quanto concepito come patrimonio comune d’espressione e di ricerca che non è ancora completamente concluso in se stesso ma che può essere proseguito. Ecco quindi spiegata la fondazione del quadro di WKC? nel David con la testa di Golia di Caravaggio. Ma non solo: Caravaggio è anche l’artista che produce l’opera attraverso il medium della pittura intesa nella sua valenza più tradizionale, contrapposta alle pratiche contemporanee in cui spesso l’autore delega ad altri da sé la realizzazione delle sue idee, come fa Cattelan. Questo chiarisce perché nel quadro David Dalla Venezia si ritrae nelle vesti del pittore-faber con il pennello in mano mentre rivolge uno sguardo compassionevole al decollato Cattelan, autore che non realizza le sue stesse opere.

Due esempi: Kitsch e Lowbrow

In WKC? la riflessione sul sistema istituzionale dell’arte contemporanea è centrale. Non si possono non riportare a tale proposito le parole di Rosalind Krauss sulla “crescente importanza nel mondo dell’arte di mostre enormi: oggi ci sono biennali e triennali a Venezia, San Paolo, Istanbul, Johannesburg, Gwangju, Seul, Yokohama. Spesso intere esposizioni sono abbandonate ad una giustapposizione confusa di progetti – foto e testi, immagini e oggetti, video e schermi – e alle volte questi effetti sono più caotici che comunicativi: in questi casi la leggibilità come arte è sacrificata”(2). Rifiutare, come David Dalla Venezia, i presupposti del contesto istituzionale significa squalificare il contesto in questione e con esso l’atto enunciativo da cui procede. Negando alle grandi mostre la validità di rappresentare l’arte, s’invalida anche l’istituzionalizzazione delle opere esposte come esemplari della produzione artistica contemporanea. Ovvero: l’arte non è solo quella proposta nelle grandi manifestazioni, l’arte sta anche al di fuori di essa. Non per niente David Dalla Venezia cita spesso due movimenti che trovano la loro ragion d’essere nella contrapposizione ai sistemi istituzionali: il Kitsch e Lowbrow.
David Dalla Venezia trova delle corrispondenze tra le sue riflessioni e quelle di Odd Nerdrum, teorizzatore del Kitsch. Tra gli imperativi dogmatici del Kitsch, chiaramente enunciati nei Kitsch Dogmas(3), sono elencati: rifiutare l’ironia; relazionarsi sempre agli antichi maestri, “non perché antichi, ma perché maestri”; volgersi costantemente al passato e considerare sempre l’arte greca del periodo ellenistico e la rinascenza barocca; rifuggire l’originalità e contrapporre ad essa l’intensità del soggetto, da rendere attraverso la bellezza estetica; disinteressarsi ad essere al passo coi tempi e di soddisfarne le richieste. Hermann Broch nel periodo tra le due guerre mondiali dedicò le proprie riflessioni sull’evoluzione del concetto di Kitsch. Per lo scrittore di lingua tedesca, il Kitsch, concentrato esclusivamente sulla sfera estetica, crea un sistema di imitazione dei modelli del passato che ne estrapola solo l’aspetto estetico, con la conseguente perdita dei valori etici fondativi dei modelli stessi. La ferma convinzione di Broch che si debba operare una contrapposizione manichea tra arte come bene e Kitsch come male nell’arte, deriva dal fatto che per lui il Kitsch, fondandosi sull’imperativo estetico del bello (con conseguente perdita dell’imperativo etico), rappresenta il mondo non secondo le sue reali sembianze, ma ignobilmente mascherandolo con la bellezza. Il Kitsch è “il male nel sistema dei valori dell’arte”(4). Malgrado la sua avversità, Broch evidenzia come il Kitsch si opponga all’arte di tendenza, opposizione resa oggi ancor più manifesta nella teoria di Odd Nerdrum: il Kitsch è in posizione conflittuale con le accademie, con l’università, con lo stato e con la burocrazia e considera arte ciò che si rifiuta di accettare come arte.
Altro movimento spesso citato da David Dalla Venezia è Lowbrow. Nato nell’ambiente underground della cultura surf nel sud della California alla fine degli anni Sessanta, Lowbrow sin dalle sue prime manifestazioni adotta la tattica di dissacrare per divertimento le regole della convenzione, proponendo le icone della cultura popolare più bassa. Per Lowbrow la preoccupazione non è essere riconosciuto come movimento artistico dal sistema istituzionale dell’arte, ma ricevere tale riconoscimento dalla gente comune. Il termine Lowbrow nasce come contrapposizione ad highbrow (usato per indicare la cultura “alta”), in riferimento alle basse origini del movimento radicate nel fumetto, nel punk, nella cultura di strada, nei tatuaggi e nelle altre subculture californiane.
Kitsch e Lowbrow sono due efficaci esempi di pratiche capaci di sopravvivere anche al di fuori dei sistemi istituzionali dell’arte contemporanea. Benjamin H.D. Buchloh, secondo il quale la situazione dal secondo dopoguerra “può essere descritta come una teleologia negativa: un continuo smantellamento di pratiche, spazi e sfere autonome della cultura e una perpetua intensificazione dell’assimilazione e omogeneizzazione”(5), nel suo interrogarsi su dove stia volgendo l’arte oggi e se sopravviva negli artisti la volontà di crearsi degli spazi al di fuori del sistema standardizzato del contemporaneo, in parte trova risposta in questi esempi.

La bellezza e la pittura

Nel differenziarsi dal contesto istituzionale delle grandi manifestazioni e nello sfidarne gli assunti, David Dalla Venezia propone il ritorno ad un certo modello di bellezza di fronte alla tendenza contemporanea di celebrare l’effimero attraverso l’antiestetico e il brutto. La bellezza è per lui intesa come ciò che è capace di coinvolgimento dei sensi nel piacere, ciò che agisce sulla percezione corporea provocando una reazione sensuale, fisica. Il bello artistico conferisce all’opera un elemento di transizione nell’atemporale, una permanenza nell’Essere: l’immagine pittorica, creando un’illusione, supera il vincolo della durata della materia e si cristallizza in una sospensione della temporalità. La cifra emozionale derivante dal coinvolgimento sensorio nel bello artistico permette allo spettatore stesso una permanenza nell’Essere, una transizione nell’atemporale che per David Dalla Venezia è possibile solo attraverso un proseguimento della tradizione, nel suo caso della pittura. 
La pittura nell’operazione WKC? viene investita da David Dalla Venezia di un ulteriore significato. Il quadro è il tramite attraverso cui avviene la mediazione tra mondo fenomenico e mondo trascendente, è una sorta di finestra incastonata in una nicchia nera attraverso la quale s’instaura un dialogo stretto con l’Essere. Tale concezione dell’opera d’arte richiama il pensiero di Pavel Florenskij sulla tradizione dell’icona russa: in essa l’artista non porta la sua personalità né la sua interpretazione (concezione estetica tipica del mondo occidentale), ma si fa tramite del mondo trascendente che, attraverso la contemplazione, lo investe e lo eleva all’Assoluto facendo sì che ciò che produce nell’icona sia manifestazione dell’Assoluto stesso. Le icone, pertanto, mediano tra il mondo tangibile della datità e il mondo divino. Tangenzialmente anche il quadro di David Dalla Venezia è portatore di tale mediazione. Per lui essere un artista non è un’autonoma scelta di vita, ma una condizione inestricabile del suo essere, un’investitura deterministica a cui non si può sottrarre. Diversamente, per Cattelan l’arte è una scelta consapevole: egli stesso ha ripetutamente affermato, con il piglio ironico che lo contraddistingue, di aver scelto di fare arte perché comporta poca fatica.

Dalla Venezia / Cattelan

Per quanto l’operazione possa sembrare a una lettura superficiale una critica a Cattelan, va sottolineato che questa non è in nessun modo l’intenzione dell’autore. David Dalla Venezia, anzi, reputa Cattelan un’artista contemporaneo intelligente e ironico che ricerca il sensazionale a discapito della bellezza e del sublime, e che pertanto, nel suo incarnare ciò che è un artista contemporaneo, gli è diametralmente opposto. Citando una sua stessa frase, WKC? “è anche una sorta di omaggio ad un grande esempio di ciò che io non sono né voglio e posso essere, ovvero un artista contemporaneo”.
A questo punto è inevitabile considerare gli aspetti della produzione di Cattelan che lo hanno reso esemplare come artista contemporaneo agli occhi di David Dalla Venezia. Ovviamente, vista l’implicazione in WKC? della riflessione sulle grandi manifestazioni d’arte contemporanea, la plurima partecipazione di Cattelan alla Biennale di Venezia (Lavorare è un brutto mestiere, 1993; Turisti, 1997; Mother, 1999; La Nona OraHollywood, 2001; Charlie, 2003) è la prima e più scontata ragione. Ad essa si aggiunge la ripetuta pratica di ironizzare sia sulla sua identità in quanto essere umano sia sul suo ruolo di artista, spesso raggiunta tramite la dissacrazione di maestri della portata di Joseph Beyus, Michael Ascher, Jannis Kounellis o Lucio Fontana. Per Super-Noi (1992), ad esempio, Cattelan ha fatto trascrivere a parenti ed amici delle sue descrizioni, sulle quali si è poi basato un poliziotto esperto in identikit per realizzare dei ritratti, senza sapere chi fosse il soggetto descritto. Dall’operazione è risultata una schizofrenica esposizione di diverse interpretazioni dell’identità di Cattelan, sorta di demistificazione del Super-Io della psicanalisi. In La rivoluzione siamo noi (2000) un sottodimensionato bambolotto di cera con le sembianze di Cattelan è appeso ad un attaccapanni di Marcel Breuer e indossa un abito di feltro, installazione atta a profanare l’omonima opera del 1970 di Joseph Beuys. Nell’Untitled (2001) Cattelan nuovamente utilizza un bambolotto in cera con la sua fisionomia e lo fa fuoriuscire come un ladro dal pavimento bucato del museo Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, dichiarazione della sua perpetua inclinazione a frangere ogni canone prestabilito.
       Non si può non ricordare a questo punto il documentario E’ morto Cattelan! Evviva Cattelan! (2006). Il film è una manipolazione della realtà in cui viene inscenata la morte di Cattelan. Da quest’ultima, avvolta nel mistero, parte un’inchiesta che è celebrazione della vita del discusso artista. WCK? pare proprio voler fornire a questo documentario la prova del virtuale delitto. L’irriverente Cattelan, dopo aver dissacrato artisti sacri dell’arte contemporanea, in WKC? a sua volta è vittima dello stesso meccanismo con cui tanto edonisticamente aveva ironizzato su se stesso e sull’arte: dissacrato da un altro artista, viene virtualmente ucciso dalla potenza della tradizione del pennello, sul quale compare l’eloquente incisione «H.ASOS».

 

1 In seguito indicata nel testo con WKC?.
2 Rosalind Krauss, in Hal Foster, Rosalind Krauss, Yve-Alain Bois, Benjamin H.D. Buchloh, Arte dal 1900 – Modernismo, Antimodernismo, Postmodernismo, Zanichelli, 2006, p.667.
3 I Kitsch Dogmas si trovano pubblicati nel sito ufficiale di Odd Nerdrum (www.nerdrum.com).
4 Titolo del settimo saggio in Hermann Brock, Il Kitsch, Einaudi, 1990.
5 Benjamin H. D. Buchloh, in Hal Foster, Rosalind Krauss, Yve-Alain Bois, Benjamin H.D. Buchloh, Arte dal 1900 – Modernismo, Antimodernismo, Postmodernismo, Zanichelli, 2006, p. 673.

 

*Emanuela Pezzetta è attualmente iscritta all’ultimo anno della Scuola di Specializzazione in Storia dell’Arte dell’Università degli Studi di Udine, presso la quale conseguirà il diploma con una tesi sulla diffusione in Italia della scultura britannica attraverso le Biennali di Venezia dal 1948 al 1958. Si è laureata nel 2004 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Udine con la tesi Bellezza e percezione sensoriale nelle Enneadi di Plotino. E’ autrice di diverse pubblicazioni (Testimonianza, sul semestrale TempoFermo n.001/2003, 2003; Percorsi sulla filosofia dell’arte/Paths in the philosophy of art, sul mensile L’architettura, cronache e storia/The architecture, events&history, anno L n.580 febbraio 2004, Roma; Il Viatico per cinque secoli di pittura veneziana di R.Longhi: un’analisi linguistica, 2004, sul periodico www.almanaccoindipendente.it; Intra/Extra moenia, in Palinsesti, catalogo della mostra a cura di Alessandro Del Puppo, Skira, 2006; Sefer Memisoglu, nella rivista di arte contemporanea Juliet, gennaio-febbraio 2007).